I portoni di Frugarolo
nei quadri di Dino Scarabello - Testi a cura di Dino Molinari
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SITO IN COSTRUZIONE a cura di valter piccione
Il paese dei portoni
Frugarolo è stato definito il paese dei portoni. La definizione è dei nostri confinanti e ha un significato
non propriamente positivo che, anzi, manifesta un pizzico di malcelata invidia.
I confinanti – diciamo Mandrogni – erano “nomadi”,
per ragioni ataviche, addirittura genetiche:
privilegiavano il commercio – un tempo, anche minuto commercio – rispetto all’ agricoltura
che non consideravano; amavano i cavalli, congeniali al nomadismo, rispetto ai bovini, animali
stanziali, da lavori pesanti; erano inclini a
una urbanistica “aperta”, senza recinzioni, cortili
che si addentravano in altri cortili, secondo uno
schema molto affine alla casba.
Il portone, secondo una loro logica, era simbolo
di chiusura, di separatezza, di individualismo, in
ultima analisi, di spocchiosa autosufficienza, di
conservatorismo. Tutti elementi contrari al loro
senso di libertà, di autonomia, di evolutismo.
Ovviamente, per noi, il portone era tutt’altra
cosa. Per noi, era un “blasone”. Purtroppo è indispensabile
parlare al passato, perché, oggigiorno,
sono completamente cambiate – come
vedremo – le condizioni e i rapporti di vita, soggettiva
e collettiva.
Il portone era simbolo di sicurezza: non solo sicurezza
fisica, materiale, ma, soprattutto, sicurezza
economica, stabilità, certezza in determinati
valori come la famiglia, il lavoro, la dignità, l’autonomia,
l’essere “se stessi” nei confronti degli
altri e non contro gli altri. Insomma, individualismo,
affermazione dell’individuo, ma non egoismo,
egocentrismo, asocialità.
Trovo ingiustificate certe qualifiche affibiate ai
frugarolesi – Anvidius o Antiquari – nel senso
di conservatori – dir Friarò.
Penso che tali definizioni siano una conseguenza
della definizione d’origine – quella aberrante
– di “paese dei portoni”.
Dino Molinari
Visitate anche:
un po' di storia
Nascere a Frugarolo – ho scritto tempo fa, e lo
riscrivo – non è solo un dato anagrafico, ma è un
segno del destino.
Si nasceva – è necessario, ripeto, parlare al passato
– con un’impronta specifica, perché Frugarolo
aveva sue connotazioni precise, aveva una sua
individualità definita e inalienabile. Oggi, purtroppo,
tali specificità si sono attenuate, se non
dissolte, praticamente trasformandosi, come la
quasi totalità dei paesi, in un dormitorio.
Frugarolo aveva una caratterizzazione economica
(agricoltura, artigianato), religiosa (Chiesa
parrocchiale con titolo ab antiquo di Arcipretura,
due Confraternite, uno scandito e osservato
calendario liturgico), sociale (due Società di mutuo
soccorso, entrambe attive).
Non mancavano i professionisti (medici, notai, avvocati,
ingegneri, insegnanti, geometri, molti dei
quali avevano usufruito delle borse di studio istituite
da Pio V e dai Capriata), erano presenti gli
artisti (pittori: Lorenzo Trotti Bentivoglio, Angelo
Michele Benzi, Pio Lago, Germano Buzzi, Paolo Lorenzotti);
fotografi (Carlo Cassinelli, lo stesso Trotti)
: esisteva anche uno storico (Giovanni Patria).
Due precedenti preziosi, riferiti dallo storico
stesso: Manfredo Baglione, metà del XV sec., autore
di scritti latini, in prosa e in poesia, quali
“Odi e inni ad imitazione di Orazio”, “Interpretazioni
del poeta Persio”; Agostinino Baglione, “assai
dotto nell’arte medica”, scelto dal Ghislieri, allora cardinale, come proprio medico e, successivamente,
1569, nominato vescovo di Alessandria,
fino alla morte, 1571.
Dino Molinari
Da ricordare ancora altri esempi che rivestono
particolare interesse, o curiosità, o suggestione:
nella Fondia, il portone di “Villa Voriesco” (vedi rappresentazione sopra): “Villa
Voriesco / ti chiamerò / perché Mantelli Domenico
/ il 24 luglio 1888 / ti fabbricò”. Mantelli
Domenico era il mitico “Giugen” e la Villa era il
suo capolavoro. Ho conosciuto “Giugen” quasi
centenario: ha lasciato una traccia ben precisa
nella mia memoria infantile per l’insolita consuetudine
di applicarsi, a scopo terapeutico, sanguisughe
dietro il padiglione delle orecchie
Dino Molinari
Il portone di Giotu
Il portone di Tonelli
La casa a corte. Il portone
La casa a corte, unità abitativo/lavorativa, caratteristica
della Fraschetta – talora diffusa anche
nelle regioni a centuriazione romana – è l’elemento fondante della architettura agricolo/
contadina di Frugarolo, in parallelismo ma, più frequentamente, in contrapposizione con la casa a schiera.
La casa a corte è caratterizzata da un nucleo a recinto, quadrangolare, chiuso rispetto all’esterno,
in grado di autogestirsi.
Va subito premesso che l’unica via di comunicazione
con i luoghi di pubblico utilizzo è il portone – con annesso portoncino per uso pedonale.
Il portone era ermeticamente serrato: si apriva
e si chiudeva per l’uscita dei carri che si recavano al lavoro, si apriva e si chiudeva per il rientro dei carri che tornavano dal lavoro,
si apriva e si chiudeva in altre rare circostanze:
per i matrimoni, per i battesimi, per i funerali.
Il portone era di legno – talora anche pregiato
– era sorretto da cardini infissi nei robusti pilastri in mattoni portanti, coronati in alto da un arco perfetto, sempre in mattoni, orgoglio dell’abilità dei nostri capimastri –
macché architetti! dov’erano gli architetti?
Erano grandi, medi, piccoli, secondo le possibilità
economiche del proprietario e della famiglia. Erano, pertanto, anche un segno di distinzione, di valutazione di merito.
All’interno della corte, si allineavano sul lato frontale: la casa padronale (due o tre piani), una o più “celle” abitative per eventuali dipendenti,
le stalle, per bovini e cavalli, a pian terreno,
sormontate da portici con la riserva per l’alimentazione diretta degli animali.
Al centro, l’aia, mantenuta libera, con pozzo, abbeveratoi e letamaia.
Sugli altri tre lati periferici erano disposti ancora
portici per immagazzinare i raccolti (cereali
in attesa di trebbiatura, fieno in attesa di vendita: l’acquirente privilegiato era il Regio Esercito), infine, gli spazi per mettere a riparo i carri, le macchine, gli altri attrezzi di lavoro.
Dino Molinari
Il portone di Cicu
I portoni di Dino sono deserti. Tranne uno, singolare,
singolarissima eccezione (vedi rappresentazione sopra).
Si tratta di un bel portone antico, restaurato, in
via Villanova. S’illumina della luce di una figurina
femminile estiva, luce d’aurora, luce dell’est. La
presenza della silhouette, statica, netta, silente, ha la valenza di un presagio, di una indicazione
profetica: “Se si chiude una porta, ti si aprirà un
portone”. Il quadro s’impone per la sua assoluta
unicità e per tutti i suoi misteriosi significati
impliciti.
L’artista ha raggiunto una sintesi d’immagine, colore,
tono, luce – esterna e radente, interiore e
riverberante.
Dino Molinari
IR PURTÒEN D'FRERA E RA PURTEN-NA DIR SCOERI
Patrimonio da salvare
Affine idea – progetto o ipotesi – sui portoni è
passata, autonomamente e parallelamente, all’altro
Dino - “si vis pacem, Scarabellum” - il quale, da uomo dell’immagine o immaginifico qual’è, ha iniziato un suo censimento che teneva conto, più che di discorsi, di rappresentazioni reali. La
sua vorrebbe essere (anche) una testimonianza
viva, visiva, da lasciare in eredità alle generazioni
future, soprattutto quando il portone sarà una
semplice pallida traccia della memoria, e quelle
generazioni a venire se la ritroveranno documentata
solo sulla tela.
Il degrado dei portoni è impressionante: si calcola
con Dino – l’ alter ego - che in origine fossero
circa 130/140. Oggi se ne contano una settantina,
con una perdita del 50%. Tale degrado si è
verificato dal dopoguerra a oggi. Fino alla guerra
può dirsi che la storia si sia fermata, che le varie
situazioni di vita e di cultura siano rimaste
pressoché immutate. Solo dagli anni cinquanta a
oggi tutto si è evoluto – o involuto – provocando
le infinite mutazioni che hanno sconvolto il
secolo, nel bene e nel male.
L’operazione “D & D”, nata precipuamente per
focalizzare la questione dei portoni, ha ampliato
il proprio raggio d’azione: storia e storie, personaggi
e persone, Fruges/Fruges da sondare nelle
sue molteplici stratificazioni – quasi una geologia
– vissute con diversa presenza e intensità dai
due “contraenti”.
Ma soprattutto l’operazione si è concentrata sul
discorso della pittura, in quanto lo Scarabello
– non va dimenticato – ci mette, sì, le immagini,
ma le immagini sono quadri e i quadri sono
pittura.
D.M.
Il paese com'era (da una foto dell'epoca)
Il portoncino della farmacia
C'era una volta...
Portoni in ombra
Il portone di Gemma ra Pidrola
I portoni di via Villanova
Portoni "rifatti"
Portoni " squadrati "
I portoni di Bosco Marengo
Santa Croce - Bosco Marengo
Epilogo
Dopo un temporale dirompente, decisamente
primotempale, mi accorgo dello sbocciare improvviso
della magnolia da fiore, bianca, di candido
candore, a rievocare l’ancor recente lucore
nivale. Miracolo del giardino tardo/invernale, miracolo da aggiungere a miracolo, dalla magnolia
di recentissima fioritura alle corolle aperte, beanti, delicatamente tinte di bianco/rosato degli
ellebori di già sotto la neve.
Prepariamoci a una stagione di intima inquietudine,
non immune dai rischi dell’obnubilamento,
della “grande ombra” incombente.
Cielo notturno. Ormai profondamente notturno, lucido, lucido e notturno, con stelle, miriade di
stelle, galassie di stelle.
Non ricordavo un cielo di stelle siffatto.
Fruges/Fruges. 30.III.’010
Dino Molinari